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Spesso, quando cammino, guardo per terra.
Non è per timidezza: è solo che mi capita così.
Ho un amico che ha quest’abitudine, e ogni volta trova una moneta che poi butta, quando torna a casa, in una giara in ingresso.
Anno dopo anno, marciapiede dopo marciapiede, quella giara è ormai quasi piena.
La sua è diventata una leggenda, alimentata da racconti come di quando riuscì a scovare una rupia in un mercato di Jaipur.
Un’impresa eccezionale, come può confermare chiunque sia stato in India: in quei posti è generalmente impossibile che una moneta riesca a toccare terra.
Sarà catturata in volo dalla più fortunata delle molte, fulminee mani che si lanceranno a intercettarla.
Nella sua lunga carriera il mio amico non si è limitato alle monete, ma può vantare un carniere dove figurano, tra gli altri trofei, anche un Rolex da donna che a lungo ha ornato il suo braccio, e un quadro del Settecento di buona fattura.
Purtroppo, dato il soggetto –un’aquila che divora il fegato di Prometeo- non è ancora riuscito a venderlo. Ma, come le monete della giara, fa parte del suo tesoretto per la vecchiaia.
Io, invece, in cinquant’anni di strade a occhi bassi non ho mai trovato niente che valesse la pena di chinarsi a raccogliere. Un mezzo giornaletto porno, una volta. E un portafoglio, un’altra volta a New York, che giaceva in mezzo a un marciapiede di Union Square.
Quando mi chinai a prenderlo, quello però saltò un pò più in là. Era manovrato con un filo da pesca da un gruppo di operai di un cantiere vicino, che avevano così trovato il modo di passare in allegria la pausa del pranzo.
Da quella volta non ho più trovato niente, e dubito che se vedessi un altro portafoglio cercherei di raccoglierlo: le risate di quegli operai mi bruciano ancora nelle orecchie.
Mi sono spesso chiesto come mai il mio amico trovi sempre qualcosa e io invece mai, e non è che non ne abbia occasione: come ho già detto, cammino quasi sempre con gli occhi per terra. Secondo me la risposta sta nel fatto che lui si aggira per le strade del mondo come un leone nella savana, attento e guardingo, mentre l’occhio mio, invece di scandagliare le strade a caccia di prede, viene lasciato libero di vagare come meglio crede.
E si posa sulle crepe e le toppe dell’asfalto, su strisce dipinte, tombini, foglie cadute, ombre, macchie di vernice.
Cose così, senza importanza, che qualche volta mi capita anche di fermarmi a osservare senza capire perché. Siccome mi piace anche girare con la macchina fotografica in tasca, pronta a catturare qualcosa di interessante, mi sono spesso ritrovato a fotografare questo genere di cose. Sono anni che lo faccio, e non è che così rivelino qualche loro nascosta verità.
Restano quello che sono anche in fotografia. Una macchia è una macchia è una macchia, direbbe Gertrude Stein.
Comunque sia, di foto alle macchie –e alle strisce, ai pezzi di muro, alle righe delle saracinesche, ai gradini, e così via- ne avrò fatte a centinaia, e le ho buttate quasi tutte.
Ma un giorno, camminando con la mia nuova macchina digitale davanti al cantiere del MAXXI a via Guido Reni, sono stato attratto da un bellissimo groviglio di linee gialle e blu e mi sono messo a fotografarle senza risparmio.
Dopo aver scattato un certo numero di foto, le ho riviste tutte insieme sullo schermo e sono stato incantato dall’immagine che formavano una specie di poligono tutto sbilenco.
Sembrava un’incisione di un Luca Paccioli dislessico.
Da allora ho scattato moltissime di quelle foto, di giorno e di notte, liberamente, senza più curarmi di comporre l’inquadratura. Quando nella macchina non c’è più spazio per altre fotografie, le archivio nel computer che mi ha appena riferito che a oggi ne ho 5.484. Una volta messe lì al sicuro, me le dimentico.
Passano giorni, mesi o anche anni, fino a quando arriva il momento in cui, riguardandole, me ne salta agli occhi una. La prendo e poi ne scelgo un’altra tra quelle fatte quella stessa volta.
La metto accanto alla prima, ne prendo un’altra e vado avanti così, mettendo, togliendo e spostando fino a che, tra le tante immagini che si compongono e sciolgono, ne vedo affiorare una che mi fa venire in mente qualcosa, proprio come fanno le nuvole quando ci mettiamo a guardarle. A quel punto, come una levatrice, la aiuto a nascere e la accudisco.
Alla fine, quando è pronta, la guardo e vedo cose che non immaginavo quando scattavo le foto.
Il volo silenzioso di un bombardiere invisibile, lo scroscio di un temporale, la scrittura di un pentagramma, un cielo ventoso.
Ogni singola fotografia di quella composizione sta ancora lì, a riprodurre un pezzo di marciapiede o un gradino che segna il limite del mondo visibile, ma insieme alle altre, invece, apre uno spazio che a me pare infinito.
Una volta Pippo ha detto a Topolino, è strano come tutte le discese, viste dal basso, sembrino salite.
Vi sono più cose in cielo e terra, Orazio, di quante ne sogni la tua filosofia, risponde il Bardo per bocca di Amleto.
Peter Quell, giugno 2009 |
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